La terapia riabilitativa

Da anni si parla della “Qualità di vita” come unico indicatore possibile del benessere e della felicità umana.

La possibilità di avere una” buona vita” ed in che cosa esattamente consista, è stata da anni frutto di continui approfondimenti e riflessioni.

A noi interessa in particolare che, nella progressiva estensione di questo concetto anche alla disabilità, siano stati focalizzati e concettualizzati i collegamenti tra qualità della vita come benessere e i concetti di integrazione, libertà di scelta, inclusione (Brown ed al, 2008) in relazione appunto ai portatori di qualunque forma di disabilità.

La concettualizzazione che così definisce la qualità della vita in un portatore di disabilità,   e che  facciamo nostra, è quindi  quella  che qualunque “diversità” non deve essere un limite alla inclusione sociale, alla partecipazione , alla  espressione dei propri bisogni e desideri. Non è però possibile sottovalutare che nel campo che a noi interessa, quello della disabilità mentale, tutto questo diviene un progetto complesso, articolato, che deve contare su vari momenti di progressiva, anche se lenta, espansione del soggetto.

Si deve quindi sviluppare all’interno di un percorso che, a misura delle sue individuali possibilità - come in qualunque altro cittadino - partendo spesso dai bisogni primari, si snoda in una serie di interventi fino ad arrivare a rendere cosciente un suo personale modo di essere e di sentire. 

Ora, entrando nello specifico della realtà quotidiana in cui si svolge la vita del nostro utente all’interno di un istituto di riabilitazione, la maggior parte degli interventi routinari, al di là di un possibile bisogno specifico di riabilitazione,   sono caratterizzati da  un aspetto essenzialmente pedagogico, finalizzato  all’apprendimento di “buone norme”, di attività para-scolastiche, di esplicazione  di  attività a “copia” ridotta rispetto a quelle esistenti fatte dai cosiddetti “normali”, che restano e sono il modello  di riferimento.

Cosa comporta questo è visibile. Noi cerchiamo, con buona volontà e spesso con grande fatica di ridurre il gap con gli ”altri“ in genere,  assimilandoli. Cerchiamo così di facilitare un adattamento, cerchiamo, con le migliori buone intenzioni, di rendere il soggetto di cui ci prendiamo cura, una buona persona, adattabile, non contrappositiva, dotata di un qualche livello di apprendimento.

Questi obiettivi sono evidentemente condivisibili ma non sufficienti.

Le proiezioni che con estrema facilità investono il disabile sono il frutto di un meccanismo adattivo, che investe l’interno della persona e le sue proiezioni all’esterno, che tutti abbiamo sperimentato. Ma, mentre nella sfera della normalità, questo ha rappresentato comunque un ponte dinamico di comunicazione con “l’altro“ e di allargamento relazionale con il contesto sociale, spostato sul  disabile costituisce un’ “ossificazione”  dei comportamenti di dipendenza che certo favorisce la  presa in carico educativa, ma  che inibisce altri livelli esperenziali  .

In altri termini, il processo di crescita come portatore di una propria soggettività, si blocca spesso in una ripetizione infinita di atti di dipendenza modulari, privi di senso e significato.

Un Progetto di Qualità di Vita deve quindi superare questa fase, in modo da svincolare l’intervento sulla disabilità dalla implicita visione di una “comunità di destino” immutabile, come diceva Weber, in cui gli individui sono "oggettivamente determinati" e posti in una condizione di impossibilità di ”essere” (a qualunque livello di possibilità) in quanto  non autonomi, indipendenti e fruitori di un ascolto.

Per questo riteniamo che sia prioritario che qualunque approccio alla disabilità comporti la presa in carico della persona in quanto soggetto capace, naturalmente a seconda della sue possibilità, di essere portatore e “amplificatore” di aspetti profondi di indipendenza ed autonomia di scelte e di desideri.

L’ottica che ne consegue è di privilegiare un rafforzamento della autostima, e l’interazione con l’altro, che riescano ad essere produttive di atteggiamenti personali tali da reperire capacità diverse ed inesplorate nella persona disabile.

Pertanto, a prescindere da una diversa organizzazione interna dei gruppi, in modo tale che ogni attività del singolo sia confacente ad un programma dinamico di benessere, questo progetto deve necessariamente e prioritariamente stimolare e coscenzializzare negli operatori tutti, l’opportunità di  una rivisitazione del proprio modo di interagire con la disabilità.

Innanzitutto dando più importanza e significatività alla relazione ed alla “narrazione“, e meno al “fare”: in altre parole più all’essere del soggetto ed alla sua creatività che a produrre per produrre.

Da questo ne deriva che dobbiamo affiancare e sostenere gli operatori nel diverso modo di intendere il rapporto con l’altro. Dobbiamo restituire al nostro soggetto di disabilità ascolto e non giudizio, porsi nella condizione di non sollecitare comportamenti rassicuranti ma stimolare iniziative, contenere e non guidare, accettare la diversità e non limitarsi a tollerarla, non indulgere nel rapporto adulto / eterno bambino.

Lo sviluppo personale, superate le fasi di normale adattamento di base, deve essere teso a sollecitare possibili interessi e rinforzare la possibilità di esprimersi del soggetto. Non sostituirsi nelle iniziative ma riuscire a percepire le loro.

Se vogliamo essere centrati sulla persona e non sul compito, come spesso accade, dobbiamo anche sollecitare la socialità, l’unione e rompere la tendenza all’isolamento ed alla estraneità, cercando di capirne le motivazioni ed intervenendo come facilitatore.

Il principio della ”continuità educativa” si deve notare che porta con sé un meccanismo di attaccamento che porta naturalmente il disabile a cercare la gratificazione della persona adulta, con il rischio di sostituirla ai  suoi specifici desideri o  a quello che vorrebbe o non vorrebbe fare.

In altre parole, il mondo dell”insegnare” , validissimo per certi aspetti in determinati momenti dello sviluppo, è importante che sia sostituito o integrato da una lettura delle possibili dinamiche interne del soggetto che ci sta di fronte, della sua individualità e di come risponde, e noi rispondiamo, alla relazione che noi stabiliamo .

Questo concetto della interazione riteniamo che sia il punto focale che è necessario evidenziare in questa complessità del problema della Qualità di Vita.

Si deve intendere che una delle centralità del tema, una delle necessarie capacità per sostenere il nostro programma, è propria quella del passaggio dal concetto della comunicazione ad “una via”, a quella della comunicazione “circolare” e quindi del significato diverso del rapporto operatore-utente.

Non un “parlante ed un udente” stabili e fissi, ma la coscienza di far parte di un sistema relazionale dove entrambi i poli comunicativi sono coinvolti nella significatività.

Questo problema, appena accennato, è il cambiamento di fondo su cui dobbiamo programmare la formazione e la strutturazione di interventi e modalità di  incontro e verifica con tutti gli operatori della struttura per dare maggior senso agli obiettivi individuali che sono stati proposti                                                                               

Ugo Romualdi

Nuove modalità di intervento al Centro Diurno Anffas di Firenze

La riorganizzazione del Centro Diurno Anffas di Firenze si muove nella direzione di dinamizzare la struttura, cercando di promuovere percorsi il più possibile personalizzati sui bisogni e sulle esigenze degli utenti, bisogni ed esigenze non più rigidamente definiti, ma visti come flessibili e mutevoli nel tempo; prende spunto dal concetto di Qualità di Vita cosi come definito da Schalock (2008): “un fenomeno multidimensionale composto da domini chiave che costituiscono il benessere individuale”. Nello specifico, le macro aree che strutturano la Qualità di Vita sono l’Autodeterminazione, la Partecipazione Sociale e il Benessere bio-psico-sociale, che divengono l’obiettivo fondamentale per offrire percorsi volti a garantire, per ciascuna persona del Centro, il massimo livello possibile di qualità di vita in ciascuna area.

Questa focalizzazione comporta la obbligatorietà a rivisitare il concetto di riabilitazione in funzione di una immagine dell’utente come possibile portatore di un “destino” mobile nel tempo, legato alle possibili esperienze personali ed allo sviluppo di interessi oggi latenti, ma che si definiscono e crescono in funzione di investimenti energetici che il nostro utente può attivare. Si ha quindi bisogno di una struttura elastica ed adattabile, improntata non sulla “accoglienza” ma sulla formazione di pre-requisiti psicologici che possano anche favorire un inserimento, ciascuno secondo le proprie possibilità, in un ambiente professionale assistito. 

Conseguenza diretta di tale premessa è quindi concentrare il focus del lavoro riabilitativo maggiormente sull’autonomia, sulle risorse e sul destino futuro degli utenti, piuttosto che sui limiti e sulle menomazioni, definendo così 4 differenti livelli possibili di autonomia che hanno guidato la creazione dei nuovi gruppi: Autonomia minima, Autonomia bassa,Autonomia di confine, Autonomia operativa.

L’organizzazione delle 4 aree ha come dato comune un gruppo iniziale definito “gruppo scuola”, volto ad accogliere i nuovi ingressi e alla loro valutazione per un successivo invio alle varie aree. Accanto a questo è stata sentita la necessità di creare uno spazio ad hoc per gli “utenti con tratti autistici” con un apposito percorso riabilitativo.

Questa nuova modalità organizzativa si propone anche di favorire la compartecipazione e il lavoro di gruppo, di stimolare la creatività personale, di favorire il passaggio da una motivazione indotta a una personale volta al gradimento di essere parte attiva e non passiva nella realizzazione dei progetti di intervento.

Allegati

 




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